Leopardi
Giacomo Leopardi nasce a Recanati (Macerata) nel 1789. Vive per tutta l’adolescenza a Recanati ,che sente quasi come prigione, dedicandosi allo studio che gli rovina la salute. In questo periodo matura una concezione pessimistica della vita che riporta nello Zibaldone, ampia raccolta di considerazioni e riflessioni filosofiche, psicologiche e letterarie, scritta tra il 1817 e il 1832. Poiché rifiuta la poesia fondata sulla creazione di immagini ("poesia immaginativa"), si dedica alla "poesia sentimentale", che riflette e analizza gli stati d’animo. Scrive i primi idilli (L’infinito, La sera del dì di festa, Alla luna etc. ), che sono liriche dai toni evocativi, impregnate di dolore per il venir meno delle speranze e il trascorrere inesorabile del tempo. Contemporaneamente, tra il 1820 e il 1822, scrive varie canzoni (Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone, Ultimo canto di Saffo) in cui lamenta la tirannia del destino e le oppressive e disumane leggi universali.
Finalmente, nel 1822, può lasciare la casa paterna per recarsi a Roma, ma vi ritorna, deluso, quasi subito per due anni, durante i quali scrive la maggior parte delle Operette morali, dialoghi e prose filosofiche di grande liricità in cui tratta dei grandi temi dell’uomo : la Natura, la Morte, il Dolore, la Felicità, la Noia. Nel 1825 è a Milano, poi a Bologna e Firenze, dove conosce Manzoni, quindi a Pisa: qui, interrompendo il silenzio poetico che durava dal 1821, scrive i canti Il risorgimento e A Silvia (1828). Di nuovo a Recanati, compone dal 1828 al 1830 i grandi idilli (Il passero solitario, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio ecc.) caratterizzati dal senso universale del dolore e dalla pietà per tutti i viventi, illusi e travolti dalla Natura matrigna. Di nuovo a Firenze, dopo una dolorosa delusione d’amore fa amicizia con l’esule napoletano Antonio Ranieri, che si occupa della prima edizione dei Canti (41 liriche ) e con lui si trasferisce nel 1833 a Napoli, dove vive gli ultimi dolorosi anni. Muore nel 1837.
Opere
Zibaldone (1817-32); Operette morali (1827); Canti (1831, 1835, postumi 1845); Epistolario (postumo 1845).
L’infinito
( Composto fra la primavera e l’autunno del 1819 - endecasillabi sciolti)
Superando una situazione concreta, il poeta trova la forza di crearsi grandi illusioni, di erigersi sopra la ragione per concepire l’infinito dello spazio e del tempo.
«Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminabili
spazi al di là di quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio;
e il naufragar m’è dolce in questo mare.»