Smari, la vita agra di un algerino tra italiani indifferenti e fratelli ostili

(recensione dal Corriere della Sera ,11 giugno 2000,

di «Fiamme in paradiso» di Abdel Malek Smari, il Saggiatore )

Uno psicologo maghrebino ha ambientato a Milano il suo primo romanzo, «Fiamme in paradiso», dove racconta che a volte i connazionali possono essere più duri degli ospiti

 

«L’altro giorno passavo dalla moschea di viale Jenner, quando un tunisino mi ferma e fa: è vero che hai cambiato religione, è vero che adesso vai in chiesa? E io ci sono rimasto di sasso», dice Abdel Malek Smari, 42 anni, algerino di Costantina, dove si è laureato in psicologia nel 1983. Le ragioni dell’episodio di viale Jenner si trovano sfogliando le pagine di «Fiamme in paradiso», primo romanzo sull’immigrazione scritto in Italia da un immigrato; che fruga nelle pieghe e nelle piaghe, materiali e psicologiche, della questione multietnica vista dalla parte di chi arriva. Nella stessa moschea, il protagonista di Smari, Karim, viene redarguito perch é si è tagliato la barba («Se segui la tradizione del Profeta non te la dovresti tagliare»). Un’altra volta, mentre legge un libro in francese, gli dicono «chiudilo e ascolta la parola del Profeta»: al suo rifiuto, viene cacciato dal tempio. Infine, quando si compie tragicamente il suo destino, all’Istituto islamico dicono: «Maledetto sia. Non credeva alla jihad. Pensava che Dio non sia capace di aiutare i suoi soldati».

Nella piccola mansarda dove vive nel centro di Milano (un letto, due sedie, il tavolino per il computer, uno scaffale per i libri, pochi metri quadri ben ordinati grazie forse alla sua compagna, una ragazza italiana che occupa un’altra mansardina poco più in là), Abdel Malek Smari esita a denunciare l’indifferenza ostile di certi italiani e le chiusure della comunità islamica: «Tra i musulmani di Milano vi sono differenze», spiega, «come vi sono tra i cristiani. Il Centro islamico di via Padova è più aperto, accetta tutti, mentre quello di viale Jenner è più rigido, tende a controllare. Il fatto è che spesso voi ci vedete come un blocco indistinto, siamo tutti "marocchini", mentre esistono infinite individualità tra i maghrebini come tra gli italiani o i francesi».

Dal libro emergono tre conflitti: il primo intimo, personale, dell’immigrato che se ne va dalla «terra del buio» (l’Algeria «dove avere o meno la barba ti colloca in campi avversi e ti può costare la morte») verso la terra della «ghorba» (nostalgia) e della speranza; il secondo conflitto riguarda la società che lo tiene ai margini, tra ricoveri, case dismesse e auto-dormitori; il terzo è interno alle comunità islamiche divise fra spinte e chiusure. La storia di Karim, insomma, è l’«allegoria di una sofferenza dai molti volti», dice Smari: «Anzitutto una sofferenza fisica che comincia in patria e prosegue nella nuova terra fra stenti e violenza, come nell’episodio del pestaggio poliziesco contro gli arabi che dormono in un vagone ferroviario; ma anche sofferenza psicologica a causa delle umiliazioni e delle offese nate dai pregiudizi che per un algerino sono peggio di una bastonata».

Dopo i primi anni difficili, Smari ha trovato buona accoglienza presso gruppi milanesi dove insegna l’arabo o l’italiano, oppure fa lo psicologo esperto in mediazioni culturali (soluzione di conflitti multietnici). Sul razzismo non generalizza: «Spesso ho trovato accoglienza migliore presso di voi che presso altre comunità di immigrati come gli egiziani che, in quanto più organizzati, si sentono superiori agli altri, o presso i connazionali più retrivi» (nel romanzo alcuni algerini hanno schifo degli europei che puzzerebbero perch é mangiano maiale).

Ai pregiudizi di ogni segno Smari contrappone la «puzza d’uomo» che ci unisce; e non teme per la sua identità culturale: «Chi incontra un’altra cultura paventa che la sua identità venga distrutta: io credo invece che entrare in contatto con altre genti e altre lingue significhi nuova ricchezza. In Algeria abbiamo vissuto, sia pure segregati, per 130 anni con i francesi, dopo aver avuto contatti con i romani, gli arabi, i turchi. L’Occidente è nella personalità di base di ogni algerino».

Smari fa morire il suo eroe dilaniato da una bomba ai giardini di via Palestro, come il marocchino del ’93. Ma è una morte simbolica: «In quell’esplosione ho voluto vedere la distruzione di un’epoca difficile e la speranza di un nuovo inizio». A dispetto di tutto, Smari è ottimista. Se i sociologi dicono che fra 50 anni un europeo su due sarà di sangue misto, ben vengano i meticci: «Mentre il presente pare darci torto, la storia è al lavoro», commenta. «Quando il sangue si mescola, è più difficile che scorra in nome della razza». E avremo tutti la stessa «puzza d’uomo».

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